Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for febbraio 2009

Crisi economica, recessione, tracollo dei mercati, oggi sono termini talmente inflazionati da divenire parte integrante di ogni nostro discorso. Fanno parte oramai del linguaggio comune anche per i non addetti ai lavori. E come se non bastasse tutti i media, dai giornali alla radio, dalla tv all’intero web non fanno altro che parlarci della crisi, di quanto è dura questa crisi, con un gioco al ribasso di tutte le stime precedentemente indicate, che già erano catastrofiche.

Il problema è che tutto ciò non è un gioco, né uno escamotage per vendere più giornali o aumentare l’audience di tavole rotonde televisive. La crisi c’è ed è davvero allarmante. Nell’estate del 2007 inizia a colpire il mercato dei mutui immobiliari americani, per espandersi successivamente ad ogni comparto della finanza, portando quasi ad un collasso dei sistemi finanziari, con pesanti perdite degli indici azionari mondiali. Si è disintegrata una bolla speculativa e, con essa, l’illusione di un concetto di ricchezza e di sviluppo. Negli ultimi mesi ha colpito l’economia reale, influenzando le scelte di consumo, investimento e produzione. I suoi effetti hanno determinato un quadro congiunturale in rapido peggioramento in tutte le principali economie, gli Stati Uniti sono in recessione così come l’Area dell’euro ed il Giappone, e anche nei paesi emergenti, in Cina e in India, la produzione sta rallentando notevolmente.

Questa crisi mondiale sta cominciando a manifestare i suoi effetti anche come gravissima crisi occupazionale, visto che negli Usa negli ultimi quattro mesi oltre due milioni di persone hanno perso il posto di lavoro (licenziamenti che hanno attraversato trasversalmente tutto il panorama dell’economia, dalla farmaceutica all’elettronica, dalla finanza all’auto) e visto che in Europa dall’inizio dell’ultimo trimestre del 2008 a tutto il mese di gennaio 2009, si sono persi 130mila posti di lavoro nel solo settore industriale. E secondo gli esperti non siamo che all’inizio.

Naturalmente anche l’Italia è in recessione, anzi in forte recessione, la più forte dal dopoguerra. Si parla in questi giorni di una probabile flessione superiore al 2,5% del nostro PIL per il 2009.

L’universo cooperativo in questo contesto è chiamato come prima cosa ad attrezzarsi per fronteggiare le conseguenze di questo scenario apocalittico, peraltro caratterizzato dai confini molto nebulosi. Ma c’è di più. In passato si è costantemente osservata la capacità anticiclica della cooperazione, derivabile dalla sua stessa natura mutualistica. Potrà essere confermata questa capacità anche oggi? A cosa dovranno guardare e quali misure dovranno mettere in atto le cooperative? E’ pensabile, per la cooperazione, di riuscire a cogliere proprio nella fase recessiva un’opportunità di sviluppo?

Sono solo poche domande, a cui è difficile dare delle risposte certe e assolute, ma che possono contribuire come spunto per una discussione e riflessione sullo stato, sui problemi, sul futuro del movimento cooperativo in questa nuova sfida, che parte da molto lontano ma arriva fino alle nostre case.

Francesco Linguiti

 

per lasciare un commento a questo articolo clicca sul link qui sotto:

Read Full Post »

I valori cooperativi

Uno dei problemi imposti dalla globalizzazione è il processo di omologazione che pervade tutti i mercati sia quello dei beni che quelli immateriali. La risposta è una diffusa spinta al recupero di identità locali o localizzate. Risposta non facile – vista la forza d’urto dei processi economici e culturali globalizzati e globalizzanti – che assume palesemente una chiave essenzialmente difensiva: se non antagonista, comunque volta a conquistare spazi di autonomia.

 

La risposta in chiave teorica è stato il concetto di “glocale” che rende bene questa idea di una sorta di trade off  tra globale e locale e la conseguente ricerca di un punto di equilibrio tra i due “orientamenti”. Il problema è che assumere questo concetto di “glocale” vuole dire assumere, più o meno inconsciamente, l’idea che “locale” e “globale” facciano parte dello stesso “dominio”, che il gioco che lega le due dinamiche sia – come si dice – a “somma zero”, che bisogni, cioè, contenere l’invadenza del “globale” per trovare uno spazio per il “locale”.

Questa lettura di tipo dicotomico – e, quindi, il relativo conflitto che genera – anche se diffusa e generalizzata, è quantomeno discutibile. La crescente multidimensionalità dei fenomeni sociali depone, anzi spinge, non per dicotomie, ma per co-presenze, molteplicità identitarie, appartenenze a contesti diversi. Certo questa condizione produce qualche contraddizione, molti straniamenti e intime insicurezze, ma certamente fa uscire dall’angustia di un confronto finto che serve solo per battaglie ideologiche, divisioni, scomuniche.

 

Richiamo questa analogia perché in qualche modo la domanda di un recupero forte dell’identità cooperativa, che traspare significativamente anche dalle adesioni espresse a questo blog, finisce per ridursi,  nella quotidianità, anch’essa in un “vicolo cieco” simile a quello del confronto tra globale e locale. Nella vulgata ricorrente la richiesta di un rilancio identitario avviene all’interno di un presunto conflitto tra efficienza e efficacia: tra socialità e mercato. Il risultato è che, in genere, chi invoca una maggiore identità intende la necessità di “ridurre” o contenere l’isomorfismo imposto dal mercato globalizzato. Alla base di questa necessità c’è la sensazione, o il convincimento, che sull’altare del mercato si è dovuto sacrificare qualche cosa di non economico: democrazia, socialità, cioè, identità. Si chiede di recuperare identità perché le logiche del mercato  hanno trascurato o accantonato quelle sociali.

 

Il risultato di questa lettura è che porre il problema di una più forte identità significa invocare un nuovo trade off tra efficienza e efficacia, tra mercato e sociale; chiedere che, in un’ipotetica scala graduata che ha queste due dimensioni come estremi ideali, la “lancetta”, il timone del decision making quotidiano siano spostati  un po’ più verso il sociale anche se questo dovesse, come dire, far rinunciare, a un po’ di mercato.

 

Interessante è notare che non si percepisce che, così impostato, il problema non ha soluzione e non lo si percepisce neppure guardando a quali esiti questa lettura dicotomica ordinariamente produce: o alla retorica dell’auspicio impotente o al fondamentalismo della contrapposizione improponibile.

Il secondo esito è quello più consueto e si manifesta non appena si è espresso a un qualunque cooperatore operativo il bisogno di riequilibrio.

Le risposte sono sostanzialmente due: la prima, comune ad un numero assai rilevante di cooperatori,  ritiene questa richiesta offensiva o strumentale indotta da un pregiudizio politico (per gli avversari) da stupidità (per gli altri, che comunque se fanno questa domanda sono dei cretini o degli intellettuali). L’esito è un reciproco irrigidimento e la deriva è manifestamente fondamentalista. Il massimo che questa posizione è disposta ad ammettere è che, eventualmente, il problema riguarda altri settori, altre cooperative, ma non certamente la propria.

 

Il secondo esito, quello della trasformazione del problema in un auspicio: avviene quando il cooperatore operativo concorda nella diagnosi dell’esistenza di un rischio di perdita di identità. “Certo c’è un problema di riequilibrio, ma deve essere ben chiaro che si tratta di un problema che potrà essere affrontato solo quando e solo se si è “a posto” economicamente”. Quel cooperatore non mancherà di sottolineare che occorre ricordasi, anzi non dimenticare mai, che “la cooperativa è prima di tutto un’impresa, che deve essere competitiva e per esserlo non può non tenere conto dei comportamenti dei concorrenti; guadagnata la sopravvivenza sul campo, poi, si cercherà di fare di più”. Di questo è assolutamente convinto e profondamente coinvolto; è un’esigenza irrinunciabile, inrinviabile, indotta da un insopportabile mercato omologante!

A questa risposta, sia chi pone la domanda, sia chi risponde in questo modo, si mettono a posto la coscienza: il bisogno è stato espresso e condiviso e comune è l’auspicio di operare. 

 

Tutti sono d’accordo che occorre stare attenti all’isomorfismo perché “corrompe” o può corrompere, ma la sua forza è talmente performante nel decision making delle cooperative, che perfino negli ambiti in cui comportarsi in modo “non conformista” non costerebbe nulla, non lo si fa: quanto meno per inerzia, spesso per pervicacia.

Come per esempio nella rendicontazione sociale, che è strumento che potrebbe testimoniare l’identità diversa e specifica della cooperazione; ma falange di cooperative VOGLIONO assumere lo standard delle imprese di capitali e magari si fanno perfino violenza per assumere il GBS (che è già spersonalizzante per una impresa di capitale, pensa che capacità identitaria può offrire all’impresa cooperativa). E non contente si impongono, pretendono per sé, perfino la certificazione di un “la qualunque” sia disposto a dichiarare di essere un certificatore: questo lo fanno …. “per accrescere la forza del confronto”: purtroppo, per loro, sempre più omologante.

 

Il problema è che la dicotomia sociale – economico è una falsa dicotomia, che dunque non c’è alcun trade off possibile tra le due dinamiche, anzi che neppure queste prese separatamente sono facilmente (cioè razionalmente) negoziabili nella loro struttura e contenuto.  Contribuisce all’interpretazione dicotomica il fatto che per una “cosa” complessa e scarsamente riflessa, come la cooperazione, fanno presa alcune metafore, soprattutto quelle più immaginifiche (e per essere tali devono essere polisemiche cioè assumere molti possibili contenuti e quindi fare contenti tutti o molti, qualunque sia la rappresentazione che si sono fatti della cooperazione): per esempio il fatto che la cooperativa è un ibrido, oppure che è un soggetto bifronte, ecc. Queste immagini, che tutti – me compreso – usiamo, confermano una sorta di natura doppia della cooperazione che, al meglio, scandisce una sorta di parità dei valori fondanti, ma nella realtà finiscono per essere il presupposto per una battaglia sulla priorità dell’una (socialità, efficacia, ecc.) sull’altra (economia, efficienza) e origine per i susseguenti “fondamentalismi” (tra i quali possiamo definire i “sociali” che diventano “gli integralisti della socialità” e gli economici che diventano gli “integralisti del mercato”). 

 

Per uscirne bisognerebbe ricordarsi che la cooperativa non è un ibrido, non è un bifronte: è una forma di risoluzione dei bisogni comuni basata sulla mutualità (cioè i tempi lunghi e differenziati) che ricerca (perché è un atto di volontà esplicita) il mercato per provare ad essere efficiente, cioè sottrarsi, ricercando un terreno di confronto “oggettivo” (quale è il mercato, appunto) alla possibile (per non dire certa) deriva dell’inefficienza, dello spreco. Senza dimenticarsi, anche, che la scelta della cooperativa non è ideologica, pur essendo ideologica: non si fa una cooperativa perché lo impone una ideologia, ma perché in quella situazione, in quel contesto non c’è la risposta economica naturale, quella capitalista, e si è intimamente (ideologicamente) convinti che cooperando si può fare meglio e di più perché l’impresa profit  salvaguarda meno la dignità della persona, si riserva margini – markup – inaccettabili per le condizioni di monopoli, di oligopolio che è riuscita a costruire, perché è intollerabile produttrice di differenziazioni sociali, di squilibri remunerativi, perché usa strumenti e metodologie deprecabili, perché incapace di ragionare nel medio e lungo termine, perché non rispettosa dell’ambiente, ecc. ecc.  Ma questo vuole dire che così come non c’è un obbligo a cooperare non c’è neppure un obbligo alla sopravvivenza ad ogni costo della cooperativa, quando appunto non sia più in grado di ovviare alle carenze e agli opportunismi sopra richiamati e a quelli ulteriori per caso dimenticati.

 

Il problema dell’identità cooperativa è tutto qui: nell’approccio metodologico (che potremo definire critico) consistente nel porsi quotidianamente il problema sulla capacità della cooperativa (quella specifica cooperativa) di dare risposte difformi da quelle capitaliste salvaguardando l’efficienza nell’uso delle risorse e l’efficacia in quello dei contenuti, cioè la salvaguardia della scelta mutualistica (e delle conseguenze implicite in questa scelta).

 

Il problema metodologico non dà luogo ad alcun trade off, ma ad un confronto su un set di indicatori non diversi da quelli dell’impresa capitalista anche se diversamente disposti nelle priorità (si pensi al profitto e al suo posizionamento rispetto ad altri indicatori – valori – per esempio: profitto/ambiente, oppure profitto/-partecipazione).

 

Il problema dei contenuti riguarda la natura mutualistica (nelle diverse declinazioni che assume) ed i suoi fattori costitutivi: democrazia nel governo dell’impresa, parità decisionale, porta aperta, promozione, ecc. Anche nel caso dei “contenuti” bisogna stare attenti a non inventarsi finte dicotomie, perché servono solo a finti fondamentalismi e a garantire, in realtà, lo status quo. Non c’è alcuna parità o dis-parità (per importanza identitaria) tra mutualità e partecipazione: non sono due principi da mettere a confronto per decidere quale dei due è il più importante. Il principio che fa diversa l’impresa cooperativa da quella capitalista è la mutualità, cioè il fatto che a mettere insieme le persone sono i bisogni comuni, non l’interesse. I bisogni sono molteplici variabilmente impellenti, con intensità spesso differita nel tempo e diversa nelle condizioni di contesto. Solo i bisogni, come ci insegnano gli psicologi, possono essere repressi o trovare perfino risposte sostitutive come il transfert, la sublimazione. I bisogni non sono negoziabili (come gli interessi), sono solo concertabili, perché legati alle persone, e proprio perché concertabili implicano la pari dignità delle persone, la necessità di un approccio democratico e la possibilità di ciascuno di proporre un modo migliore per darne soddisfazione: in questo senso parlare di identità cooperativa vuole dire parlare di modelli di costruzione delle leadership aziendali, di turnazione dei gruppi dirigenti; di crescita delle soggettività e dei protagonismi dei soci; di equilibrio tra professionalità dei manager e circonvenzione dei soci. Se c’è identità (cioè tutto questo) e si riesce a essere competitivi, la scelta cooperativa ha un senso, ma se non c’è identità (cioè quell’insieme di funzioni sociali)………………..

Primo Salani

 

per lasciare un commento a questo articolo clicca sul link qui sotto:

Read Full Post »